Di Alfiero Grandi
Stanno emergendo nella maggioranza differenze sull’autonomia differenziata, versione Calderoli. Molti mesi di iniziative, mobilitazioni, denunce circostanziate di esperti di varia natura, in particolare nel corso delle audizioni parlamentari, hanno reso evidente che la secessione delle regioni più ricche del Nord (Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, che si è accodata) potrebbe diventare realtà mettendo in crisi l’unità nazionale.
Eppure questa destra ha fatto un accordo di governo che, pur di occupare il potere, ha sommato tutto e il suo contrario: elezione diretta del Presidente del Consiglio, autonomia differenziata, separazione delle carriere e limitazione dell’autonomia della magistratura. Di più: nell’entusiasmo della conquista del governo, dimenticando di avere ottenuto il 59% dei parlamentari con solo il 44% dei voti, la destra pensa di potersi permettere tutto e il suo contrario, usando come una clava i rapporti di forza preponderanti in Parlamento.
Un disegno contraddittorio
Giorgia Meloni ha concesso, pur di fare il governo con la Lega, un’autonomia differenziata che è un potente corrosivo dell’unità nazionale, ma anche il contrario dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio fortemente voluta da Fratelli d’Italia. Ne è conferma proprio l’emendamento fatto approvare da FdI al Senato che attribuisce al Presidente del Consiglio un potere decisionale sulle materie e sulle funzioni da decentrare alle regioni. Segno evidente di una preoccupazione di FdI che tutto sfugga di mano, ma scrivendo un potere sulla sabbia perché è intenzione della Lega fare partire l’attribuzione dei nuovi poteri appena approvata la legge (Zaia dice di avere pronta la richiesta), mentre il Presidente del Consiglio dovrà aspettare almeno un altro anno per esercitare effettivamente i suoi poteri e comunque è evidente che rischierebbe la crisi di governo negando la devoluzione di poteri. Quindi, come nel gioco dell’oca, si torna al problema di partenza.
Per ovviare il Presidente del Consiglio dovrebbe andare in parlamento e dire chiaro cosa intende delegare alla regioni, e a quali condizioni, esponendo un programma, ma è esattamente quello che Giorgia Meloni non ha voluto fare. In realtà, il governo è diviso e resta unito solo fingendo di esserlo, per il potere, come confermano posizioni che stanno emergendo nella destra che non sono disponibili a giocarsi l’unità nazionale sull’altare dell’autonomia regionale differenziata voluta dalla Lega.
Queste potenziali fratture sono presenti anche sulle scelte economiche e di bilancio: la scelta di esaltare i risultati, che peraltro non ci sono, dipingendoli addirittura come migliori del resto dell’Europa e tentando di attuare misure promesse in campagna elettorale come la flat tax solo per gli autonomi fino a 85.000 euro, mentre verso il mondo del lavoro è stato già complicato mantenere gli sgravi decisi nel periodo Draghi. Il governo e la maggioranza, uniti dal potere, sono in realtà profondamente divisi. Il problema è che le opposizioni faticano ad essere un’alternativa credibile e non riescono ad avere una vera capacità di iniziativa e quindi le contraddizioni a destra non emergono o almeno non a sufficienza.
Cresce l’opposizione
Eppure, nella società è cresciuta una consapevolezza ed una mobilitazione, di cui è certamente un punto importante il tentativo coagulato nella Via Maestra dalla Cgil con altre 200 associazioni, il cui lavoro può e deve allargarsi ad altre organizzazioni. Nel Mezzogiorno sull’Autonomia regionale differenziata è cresciuta una reazione consapevole e di massa importante. Ora è necessario che si crei una risposta politica. Le iniziative sociali hanno il pregio di essere puntuali e precise, elementi costitutivi di un programma politico alternativo, come nel caso dei quattro referendum sui diritti dei lavoratori proposti sempre dalla Cgil, delle proposte di legge di iniziativa popolare e del rilancio delle iniziative propriamente sindacali come la contrattazione per reddito, diritti, organizzazione del lavoro.
A queste vanno collegati il contrasto all’autonomia regionale differenziata, oggi molto ammaccata rispetto allo sprint iniziale, ma non ancora battuta, anche perché occorre fare crescere al Nord la consapevolezza che la rottura dell’unità nazionale sarebbe un grave indebolimento per tutti, anche per il Nord. L’Italia ha un futuro se resta unita e risolve le sue contraddizioni in un quadro di rafforzamento nazionale in un’ottica europea. In questo quadro anche il Nord avrebbe tutto da guadagnare, mentre finora c’è stata confusione tra decentramento della gestione e decentramento delle risorse e delle decisioni a livello regionale che inevitabilmente diventerebbe una cesura dell’unità nazionale, creando nuove divisioni e competizioni tra regioni. Per questo occorre fermarla e, se il parlamento non ci riuscirà, occorre che le regioni disponibili facciano subito ricorso alla Corte costituzionale per bloccare il meccanismo in attesa di poter preparare un’iniziativa referendaria di abrogazione della legge, che non sarà semplice ottenere, ma occorre provarci arrivando a sottoporre alla Corte il quesito con argomentazioni che possono convincerla ad ammetterlo, sapendo che la raccolta delle firme è già in sé una grande occasione di mobilitazione popolare.
La destra al potere rischia di portare il paese a tensioni sociali ed economiche ingovernabili e al declino. Per questo non si può attendere a mettere in campo un’alternativa politica e i tentativi neocentristi sono solo parcheggi in attesa di occasioni per leader autoproposti. La via è quella di mettere in campo alternative nette e chiare, perché non può esserci continuismo visti gli errori accumulati e la crisi di credibilità resa evidente dalla crescita dell’astensionismo a livelli preoccupanti per la democrazia. L’esempio principe è il rapporto con la Costituzione. Verso di essa anche a sinistra ci sono state tentazioni di modifiche poco meditate, a volte dannose come quella Titolo V, approvata dal centro sinistra nel 2001, che ha portato confusione, contrasti e ricorsi con le Regioni e che, diciamocelo, ha offerto a Calderoli qualche alibi di troppo. Il ministro ha operato una forzatura perché i principi costituzionali dicono il contrario, ma alcuni articoli mal formulati (ad es. 116 e 117) hanno lasciato spazio ad alcune, gravi, contraddizioni. In altre parole, il nuovo testo del titolo V non ha avuto la fortuna di essere riletto da Concetto Marchesi.
Difendere la Costituzione
Ora deve finire questa fase di novelli e improvvisati padri costituenti, e deve cominciare invece una fase di difesa e attuazione della Costituzione. Se ci saranno condizioni e necessità di modifiche puntuali si vedrà, ma non lo è certo l’elezione diretta del Presidente del Consiglio voluta da Giorgia Meloni, che invece ha un vero carattere eversivo. Forse trae in inganno la menzogna che più poteri al premier non intaccano quelli del Presidente della Repubblica e del parlamento. È falso, è una svolta, di cui Giorgia Meloni sente il bisogno perché ha bisogno di una legittimazione diretta che le consenta di non sentirsi sotto osservazione per vuoto di antifascismo e per affermare una capo-crazia, del tutto incompatibile con la democrazia italiana nata dalla Resistenza.
Difatti, il Presidente della Repubblica verrebbe drasticamente ridimensionato, non potrebbe più guidare l’evoluzione politica delle legislature e dei governi in quanto garante dell’unità nazionale ed essendo eletto da un collegio incomparabilmente minore di quello elettorale avrebbe meno forza e legittimità. Il parlamento diventerebbe una “protesi” del Presidente del Consiglio, la sua durata dipenderebbe dalla permanenza al potere del Premier, dato che i due organi dovrebbero essere legati indissolubilmente. In pratica, il lavoro del parlamento diventerebbe quello di approvare i provvedimenti del governo per garantire la maggioranza e, quindi, sé stesso. Il Governo poi sarebbe uno staff del capo senza una reale autonomia.
La Repubblica italiana democratica, fondata sulla divisione dei poteri e sul loro reciproco controllo, diventerebbe un’altra Repubblica, più simile all’Ungheria, con il potere concentrato su una persona che finirebbe con il tempo per decidere anche il successore di Mattarella (La Russa?), che nominerebbe a sua volta un terzo della Corte Costituzionale e presiederebbe il CSM, influendo sul funzionamento dell’organo di autogoverno della magistratura.
Il premierato è una modifica che cambierebbe i fondamenti della nostra Costituzione e produrrebbe altre modifiche con lo scorrere del tempo. Introdurrebbe inoltre modifiche nel testo della Costituzione contraddittorie con altri articoli, basti pensare all’articolo 67 che garantisce che il parlamentare non ha vincolo di mandato: in futuro non sarebbe più così. Che Carta fondamentale avremo in futuro? È questo, in sostanza, un tarlo destinato a fare crollare l’impalcatura.
È per una sfida come questa che Giorgia Meloni ha pagato il prezzo dell’accordo ad ogni costo con gli alleati. Per questo occorre mettere in campo una risposta allo stesso livello cercando di impedire che venga approvata e, se questo alla fine avvenisse, di costringere a sottoporla ad elettrici ed elettori nel referendum costituzionale. Se sarà approvata questa deforma bisogna impedire che venga scippato il referendum costituzionale, come qualcuno vorrebbe fare, e preparare una forte iniziativa per conquistare la maggioranza dell’elettorato e fare vincere il No. Del resto FdI sta già lanciando i comitati per il Si, cosa dovremmo aspettare a lanciare quelli per il No?
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